lunedì 3 giugno 2013

La cricca dell’olio poco extravergine arriva in tribunale – POSTED ON GIUGNO 2, 2013 POSTED IN: FRAUDS, INCHIESTE



Se c’è un prodotto irrinunciabile per le tavole degli italiani, questo è senza dubbio l’olio d’oliva. Protagonista della tradizione culinaria nostrana, rappresenta per tutto il bacino del Mediterraneo un elemento fondamentale anche in termini industriali.
Ogni anno nel mondo si consumano oltre due milioni di tonnellate d’olio d’oliva. Un tale livello di consumo richiede enormi quantità di olio, di qualità ragionevole e a prezzi accessibili, per essere distribuito nei nostri supermercati.

Dalle olive alla tavola

L’olio in commercio in Italia è quasi sempre etichettato come extra vergine, la categoria più alta fra le tre comunemente usate. Le altre due, il vergine ed illampante sono di qualità inferiore. In particolare l’olio ‘lampante’ non è considerato commestibile, il nome deriva dal suo utilizzo in passato come combustibile per lampade.
Questa categorizzazione è decisa e regolamentata dal Consiglio Internazionale dell’Olio di Oliva (CIO), un istituto internazionale fondato a Madrid nel 1959 e che raggruppa le nazioni produttrici di olio d’oliva. Il CIO gestisce il mercato internazionale dell’olio di oliva oltre a stabilire i parametri per i test di qualità.
La maggior parte dei consumatori non sa che, ad eccezione di alcune denominazioni geografiche protette, tutto l’olio d’oliva è di fatto una miscela di oli d’oliva diversi. Ogni anno molte varietà di olive vengono prodotte in quantità e qualità diverse. Eppure, tutti gli anni il consumatore è in grado di acquistare lo stesso olio della stessa marca che avrà lo stesso gusto e le stesse caratteristiche.
Di conseguenza, ‘correggere’ olio dal sapore ‘cattivo’ con olio di migliore qualità e sapore (non necessariamente proveniente dall’Italia) è una pratica perfettamente legale, oltre che universalmente adottata.
L’importante è rientrare nei parametri di legge per le varie categorie olearie e soprattutto fornire al compratore, sia esso un imbottigliatore o un distributore, esattamente l’olio dal sapore desiderato.
Se il cliente vuole un extra vergine, si fabbrica un extra vergine, se vuole un vergine, si fabbrica un vergine. E così via. Tutto matematicamente misurato sui parametri di legge, con il beneplacito di istituzioni di controllo, produttori di ogni paese e esportatori.

Il mercato del falso

Una prassi del genere purtroppo apre le porte al rischio di frode, promuovendo un sistema in cui le tentazioni a commettere irregolarità sono elevate.
Olio importato da Spagna, Tunisia e Grecia viene rivenduto come extra vergine prodotto in Italia: un fenomeno in crescita che nel 2011 ha raggiunto il suo massimo storico con 584mila tonnellate di olio di import, a fronte di una produzione nostrana in calo a 483mila tonnellate.
Il panorama internazionale vede oggi l’Italia come centro nevralgico del commercio di olio, mentre la Spagna rappresenta il cuore produttivo, con una produzione annuale circa quattro volte superiore alla nostra. Altri paesi, come Grecia e Tunisia, producono quantità minori, esportando generalmente il meglio della loro produzione, che diventa elemento ‘correttivo’ delle miscele fatte con oli più insapori.
“In generale la quantità di olio italiano all’interno di una bottiglia ‘Made in Italy’ non supera mai il 5-10%”, afferma un importante imprenditore olivicolo italiano che intende rimanere anonimo.
I signori dell’olio infatti non spremono più, ma trasformano: molto meno costoso e più redditizio. Trasformano, manipolano, deodorano, profumano. Soprattutto, importano. Comprano a mani basse all’estero e rivendono in Italia e anche fuori. Un flusso ininterrotto di miscele di oli ‘comunitari’ e ‘non comunitari’ che viaggia ogni giorno da e verso l’Italia, da Sud a Nord, a bordo di tir e navi cisterna.

Gli intermediari dell’olio: il caso Valpesana

Questo enorme traffico passa in primo luogo fra le mani di intermediari: aziende specializzate nel comprare e rivendere olio sfuso e che fungono da anello di collegamento tra i produttori e i distributori. Queste aziende producono miscele altamente tecnologiche, con oli raffinati sempre più perfetti, a prova di qualsiasi test di laboratorio, o quasi.
Una delle aziende intermediarie più importanti per quantità di olio trattato e giro di affari è, senza dubbio, la toscana Azienda Olearia Valpesana (AOV), con sede a Monteriggioni. Il caso della Valpesana, data la sua posizione di cerniera fra varie altre aziende, ci offre un punto di vista unico su tutto il sistema oleario italiano e non solo.
Il 14 maggio 2012, la Guardia di Finanza e l’Ispettorato centrale repressione frodi (ICQRF), coordinati dalla Procura di Siena, sequestravano alla Valpesana oltre 8.000 tonnellate di olio. Secondo gli inquirenti, si trattava di olio ‘falso’, contrassegnato cioè sia per origine che per qualità in modo fraudolento.  Per questo il titolare dell’azienda, Francesco Fusi, veniva arrestato nell’ambito dell’indagine condotta dal sostituto procuratore Aldo Natalini.
La AOV conta un fatturato di circa 114 milioni di euro nel 2011, e fino al momento del sequestro annoverava tra i clienti grosse aziende quali Carapelli, Monini, Azienda olearia del Chianti, Coricelli, De Cecco, Oleificio Salvadori, Oleificio Cisano del Garda e Certified Origins.
Tra i clienti stranieri della Valpesana vi erano anche la statunitense Olio Tuscany Vinegar, la tedesca Rewe e la francese Lesieur.
Fusi, socio anche dell’azienda olearia spagnola Aldaste, acquistava grandi partite di olio spagnolo da diversi fornitori grazie all’intermediazione di Rosa Moliterno, titolare della Iberia de Aceites.
In base alle accuse, Fusi si sarebbe avvalso di grandi capacità di miscelazione e di taglio, soprattutto con gli oli spagnoli.
In particolare si sarebbe trattato di olio dichiarato extra vergine italiano o greco, ottenuto in realtà da una miscela di oli di diversa provenienza, in alcuni casi addirittura con presenza di margarine vegetali. Per queste sofisticazioni sembra sia stata molto importante l’intermediazione di Iberia de Aceites e della signora Moliterno: sarebbe stata lei a fornire gli oli spagnoli per i ‘tagli’ delle miscele a Fusi.
E in alcuni casi, come emerge dalle intercettazioni, anche del ‘lampantino’, un olio con tutti gli aspetti chimici del lampante ma conforme come rilevazione delle impurezze e delle umidità. Secondo le dichiarazioni fatte agli inquirenti da Fabio Lattanzio, ex-dipendente della Valpesana, Fusi un giorno specifica ai suoi dipendenti che “senza l’operato della Sig.ra Moliterno ‘non si compra un chilo d’olio, se non si compra non si vende e voi fate le valigie’.”
Il colpo di scena avviene quando, durante le perquisizioni gli investigatori ritrovano, occultato letteralmente sotto il mattone, un registro non ufficiale dove venivano segnate le reali provenienze e qualità degli oli contentuti nelle cisterne.
Assieme al registro salta fuori un vero e proprio ‘ricettario’ con le modalità di miscela e i ‘tagli’ da praticare. Altri ricettari non sono stati rintracciati perché, lo racconta l’ex addetto al laboratorio della Valpesana Fabio Lattanzio, distrutti dopo il primo intervento della GDF. Inoltre, sempre secondo l’ex dipendente, agli addetti al laboratorio era stato ordinato di scrivere solo il minimo indispensabile, mentre tutti i dati del computer erano stati eliminati.
Dalle parole di Lattanzio si capisce che se una determinata miscela di oli non fosse rientrata nella norma, si sarebbe ridefinita la ricetta a computer: “Talvolta si aggiungevano extra vergini di diversa provenienza e c’era sempre una percentuale di vergine che corrispondeva ai ‘lampantini’.”
Il ritrovamento della contabilità occulta ha permesso al pm Natalini di tracciare “i veri parametri chimici degli oli venduti come extra vergine rispetto ad alchil-esteri, perossidi e livelli di acità, tutti molto al di sopra dei parametri di legge.”
Grazie al ‘ricettario’, il prodotto finale della miscelatura appariva come un olio perfettamente conforme alle normative vigenti. Secondo la Procura di Siena, sarebbe il ‘ricettario’ segreto, e non i registri ufficiali dell’azienda, vero ‘testimone’ d’accusa.
Paolo Vannoni, direttore amministrativo AOV, in un’intercettazione si sfoga dicendo che la Valpesana ha fatto il “lavoro sporco” per i clienti che si lamentavano dell’olio italiano troppo amaro e che chiedevano di addolcirlo (per esempio con del greco).
La maggior parte delle aziende compratrici compaiono infatti come parte lesa, solo la Salvadori è stata trovata in concorso e ha deciso per il patteggiamento, ma dalle intercettazioni emerge che diverse altre aziende accettavano prodotti di scarsa qualità in virtù di un prezzo concorrenziale. Rimane quindi il dubbio di quanto fosse davvero ‘invisibile’ la frode Valpesana, almeno per gli specialisti del settore.

“Dammi almeno una parvenza di extravergine”

Una svolta alle indagini è venuta dalle intercettazioni della Guardia di Finanza di Siena. Fondamentale quella del 22 febbraio 2012: “Bisognerà che tu mi mandi (un olio) con una parvenza di extra vergine”. Patrizio Salvadori, titolare dell’omonimo oleificio fiorentino fondato dalla sua famiglia nel 1900, sta parlando con Fusi. E con lui si lamenta della scarsa qualità della fornitura, non qualificabile come olio extravergine d’oliva. E aggiunge: “Dev’esse’ un olio extravergine, quanto meno ti devi rischiare sia extravergine”. Ottenendo però da Fusi una risposta sconcertante: “E tu sai bene il che tu compri a 1 e 88 e lo sai bene”. Come dire, a quel prezzo lì che cosa pretendi?
Fabio Lattanzio dice qualcosa di più: […] Secondo Fusi si doveva operare su ‘una sottile linea tra legalità e illegalità’, e giocare sulla miscelazione […] ad esempio, nei primi anni si ricorreva all’olio tunisino per riportare il tenore dei pesticidi degli altri oli nei limiti di legge.”
Francesco Fusi, intervistato su questo punto, ci ha assicurato che le sue miscele rispettavano le normative: “Tutto l’olio sottoposto a sequestro (le 8.000 tonnellate n.d.r.) è stato interamente restituito alla Valpesana in quanto risultato conforme alle normative vigenti”.
Vero, dissequestrato sì, su ordine del pm Natalini, ma solo dopo che è stato declassato, cioè “abbassato”, il 30-40% del prodotto sequestrato ad una categoria merceologica inferiore a quella indicata: ovvero, non più come extra vergine.
Il che significa che la Procura ha ritenuto ‘non conforme alla normativa’ non le miscele in sé ma la descrizione merceologica con le quali la Valpesana le vendeva.
Va detto però che non è semplice accertare, una volta che l’olio viene miscelato nelle cisterne, se i valori dichiarati corrispondano al vero: le analisi prescritte a norma di legge non sono infatti in grado di rilevare tutte le sofisticazioni, in particolare se l’olio è deodorato o ‘deodorato-soft’.
Ma tra gli esperti del settore, a volte l’olio ‘lavato’ puo’ essere identificato con un assaggio. È il caso della Zamboni snc. Il titolare, Sig. Zamboni, accorgendosi che l’olio ordinato alla AOV non era come quello del campione, reagisce con forza minacciando di prendere provvedimenti legali.
Intervistato, esprime il suo rammarico nei confronti di un settore troppo fuori controllo: “Per più di una volta volevano vendermi un olio di qualità ben inferiore a quello concordato in precedenza, e tutte le volte ho rifiutato e restituito il carico. Solo assaggiandolo e senza alcun test di laboratorio capivo che non era olio di qualità. Le aziende più attrezzate di altre o che hanno capacità superiori ai loro concorrenti, si affidano a questa prassi che è molto usuale in questo settore, soprattutto quando acquisti in un ‘secondo passaggio’ e non direttamente dal produttore”.
Il caso Valpesana è emblematico proprio perchè per la prima volta gli inquirenti avrebbero identificato la presenza del deodorato. L’olio deodorato è olio che ha subito una particolare pulitura per rimuoverne difetti e cattivo odore. Il procedimento, di natura chimico-fisica, avviene sottoponendo l’olio a distillazione in corrente di vapore sotto vuoto a temperature elevate (200° C). Il cosiddetto ‘deodorato soft’, è invece una miscela di olio deodorato e oli normali.
Sempre dalle dichiarazioni di Lattanzio si deduce che nel caso della Valpesana il dedorato entrava in azienda come prodotto ‘A’ e prodotto ‘B’.
Il prodotto ‘A’ aveva alchil-esteri nel limite grazie al ‘lavaggio’ svolto dai fornitori spagnoli, mentre al ‘B’ corrispondevano extra vergini con alchil-esteri fuori dai limiti di legge. ‘A’ e ‘B’ di solito venivano mischiati nelle normali operazioni di taglio operate dalla Valpesana. Il lavaggio avveniva sempre in Spagna sia su vecchi extra vergini con alchi esteri alti oppure su lampanti (in alcuni casi semplicemente riscaldando i serbatoi per fare evaporare metanolo e etanolo, generatori di alchil-esteri).
Subito dopo l’arresto di Fusi, messo ai domiciliari nel maggio 2012, altri tre dirigenti dell’azienda – non sapendo di essere già sotto controllo – iniziano ad escogitare un modo per eliminare ‘il corpo del reato’, e tra gli altri una cisterna denominata DS11/1 piena di fondame, da loro stessi definito addirittura peggio del deodorato, in particolare, dicono gli stessi indagati, era contenuto nel serbatoio ES 05.
Esemplicativa è la reazione di Vannoni, direttore amministrativo di AOV, che dopo avere ammesso che “s’è agito, maremma bona, pigliando la Grecia e targandola Italia, praticamente”, propone di svuotare le cisterne mettendoci dentro lampante o “altra roba” sprecando 40.000 euro pur di salvare il salvabile.
Come ci spiega il sostituto procuratore Natalini, le analisi chimiche “rappresentano solo l’infiocchettatura di un impianto probatorio basato principalmente sulle prove documentali ritrovate, e sulle intercettazioni ambientali e telefoniche effettuate”. Ma per dare più corpo alla sua indagine, il procuratore ha deciso di avvalersi anche di analisi all’avanguardia che potessero scovare il famigerato deodorato. Giovanni Lercker, professore del dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università di Bologna, ha testato i campioni di olio sequestrato con metodi sperimentali, che hanno dimostrato la presenza del ‘deodorato-soft’, largamente diluito con altri oli e per questo non rilevabile dalle analisi standard.
Di fronte a simili accuse Francesco Fusi si difende: “Vorrei precisare che la normativa di riferimento è il Reg. CEE 2568|91 e successive modifiche che già prevede un quadro analitico molto complesso per definire un olio extra vergine.Ritengo che un’indagine non sia il contesto corretto nel quale procedere ad analisi sperimentali che, invece, dovrebbero prima essere validate nell’ambito di contesti scientifici, e solo in seguito applicate nell’ambito di procedure giudiziarie.”
Il commento di Fusi alimenta quindi l’urgenza di nuove e più efficaci normative che regolino il mondo dell’olio d’oliva.
Ciò detto, quando si ha a che fare con grandi carichi di olio, come quelli movimentati dalla Valpesana, è necessario investire grandi risorse nella migliore tecnologia olivaria. Considerando le grandi quantità di olio che restano invendute ogni anno (specialmente nell’enorme produzione spagnola) destinate a scendere di categoria e di prezzo, resta il sospetto che alcuni produttori giochino una partita oltre le righe.
Spesso l’olio sequestrato viene rimesso in commercio e non è possibile per le autorità procedere ad ulteriori accertamenti,  spiega l’ex-dipendente Lattanzio, come “[…] il fatto di doversi preparare con alcuni giorni di anticipo alle ispezioni che arrivavano da parte di alcuni enti dello Stato; in questi casi dovevo eliminare e nascondere delle cose, sistemare la documentazione.”
E poi ci sono le complicità ad alto livello. Nel settembre 2012, gli inquirenti arrestano a Firenze – con l’accusa di partecipazione esterna in associazione a delinquere e di rivelazione di segreti d’ufficio – un funzionario infedele del MIPAAF (Ispettorato per la tutela della Qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari). Il funzionario avrebbe informato le aziende olearie dei controlli imminenti, e tra queste c’era anche la Valpesana.
L’attività investigativa a carico di AOV non è partita con un’operazione contro le repressioni di frodi alimentari bensì a seguito di una semplice verifica fiscale della Guardia di Finanza. E’ stato solo grazie al lavoro sinergico tra le forze di polizia giudiziaria (GDF e ICQRF) sotto la direzione del pm Natalini che gli elementi indiziari sono emersi.
Ora l’indagine è finita. Patrizio Salvadori ha patteggiato e ne è uscito. Per il resto la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per Fusi e altri otto, oltreché per la persona giuridica Valpesana. Sullo sfondo, l’ipotesi che la merce sequestrata alla AOV, se venduta secondo la qualifica originaria, avrebbe fruttato un guadagno illegale di mezzo milione di euro: tanto sarebbe  il profitto calcolato dalla Finanza ai fini della responsabilità amministrativa della società. Manca ancora un tassello: stabilire se mandare tutti a processo oppure prosciogliere sarà compito del giudice Monica Gaggelli.
Se le accuse contro la Valpesana si dimostreranno fondate, potrebbe essere l’inizio di un terremoto per tutto il mondo dell’olio d’oliva. Il che, forse per la prima volta, porterebbe a regolamentare diversamente un mercato sempre più fuori controllo.
Giulio Rubino, Lorenzo Bodrero, Cecilia Anesi. Questo articolo fa parte di “Food for Fraud”, inchiesta sulle frodi alimentari prodotta da IRPI e finanziata da European Fund for Investigative Journalism. Supervisione di Leo Sisti.
Due versioni ridotte di questo articolo sono state pubblicate su Il Fatto Quotidiano (vedi sotto) e Il Fatto Quotidiano online il 2 giugno 2013.