sabato 18 febbraio 2017

Contrordine della scienza: "L'olio di palma non fa male"

da "ilGiornale.it"

Durante un convengo alla Federico II di Napoli l'intervento del professor Marco Silano dell'Istituto Superiore di Sanità: "Nessuna tossicità"



Contrordine compagni, l'Olio di Palma fa bene. Dopo anni di guerre commerciali e bugie varie, ora un nuovo punto a favore della palma lo fa segnare un convegno organizzato dall'Università degli Studi Federico II di Napoli al dipartimento di Farmacia.


Nell'occasione il professor Marco Silano dell'Istituto Superiore di Sanità ha spiegato come tempo fa l'Iss abbia dato un parere sull'olio di palma, spiegando che "l'ingrediente non ha alcuna sostanza tossica di per sé".

"L'olio di palma - ha spiegato all'Adnkronos Silano - contiene una quantità di acidi grassi saturi maggiore rispetto agli altri olii vegetali, al posto dei quali viene utilizzato (l'olio di semi di girasole, ad esempio, contiene il 15% di grassi saturi)". E troppi grassi aumentano il "rischio cardiovascolare" certo. Ma è anche vero che l'olio di palma "può sostituire olii vegetali che hanno ancor più acidi grassi saturi (l'olio di cocco arriva all'80%, per esempio) e ha permesso eliminazione dei acidi grassi idrogenati trans, che hanno un effetto dannosissimo sulla salute cardiovascolare".

Inoltre, spiega il professore dell'Iss, "esistono due grossi gruppi di acidi grassi saturi: quelli presenti negli alimenti non trasformati (carne di vario genere, formaggi, latte e uova) e quelli contenuti nei prodotti della trasformazione industriale, a cui è addizionato l'olio di palma". Quindi la cosa importante non è eliminare l'olio di palma, ma limitarsi nell'assunzione di acidi grassi (quindi anche quelli che vengono dalla carne e dalle uova). Gli acidi grassi saturi non dovrebbero superare il 10% nella dieta giornaliera. Quindi "la criticità rientra nella quantità di acidi grassi saturi che compongono la dieta di una persona. Non basta eliminare un singolo prodotto, ma va valutata l'intera dieta".

Certo, un problema esiste per quanto riguarda i "contaminanti che si formano durante i processi di raffinazione", quando l'olio viene raffinato nei processi industriali. Rischi che però le aziende stanno affrontando e che potrebbe portare a breve all'eliminazione di questi contaminati.

sabato 4 febbraio 2017

Farinata di ceci, lo street food che unisce i popoli di mareFarinata di ceci, lo street food che unisce i popoli di mare Torta di ceci livornese, a regola d'arte: nella teglia tonda, cotta in forno a legna, croccantina fuori, morbida dentro Protagonista del cibo di strada di mezzo mondo, dalla Toscana all’Argentina, dalla Sardegna all’Uruguay passando per il Marocco. Alimento povero la cui nascita si perde nei secoli, tra racconti fantasiosi e scambi commerciali.

Ingredienti:  150g. di farina di ceci 500 ml. di acqua a temperatura ambiente 1 cucchiaino di sale 4 cucchiai di olio di oliva tre cucchiai in padella prima e 1 cucchiaio dopo al massimo della temperatura 
La leggenda fissa la sua origine alla fine della guerra tra le repubbliche marinare di Genova e di Pisa, per l’esattezza nel 1284. E l’ironia della sorte ha voluto che il tutto si svolgesse nel mare di fronte a Livorno, quindi tutte e tre le città possono contendersene la nascita. Siamo nei giorni della battaglia della Meloria e i genovesi vittoriosi si accingono a navigare verso la loro città, trasportando a bordo molti prigionieri pisani.
Una tempesta però rende difficile il rientro in Liguria. Il vento infuria e sulla nave è il caos: i sacchi di ceci nella stiva si rovesciano, si mischiano con l’olio che esce dagli orci frantumati e con l’acqua di mare che entra da una falla.
I legumi sono così ammollati e una poltiglia ricopre il pavimento. Intanto la navigazione rallenta e le scorte di cibo sono agli sgoccioli.

Ai prigionieri viene dato quello strano intruglio di ceci, servito in scodelle. I pisani, nonostante la fame, non ne vogliono sapere. Salvo poi accorgersi che nei recipienti lasciati al sole il miscuglio solidifica assumendo un bel colore dorato e un profumo invitante. Una volta arrivati a casa, allora, i genovesi sfruttano la casuale scoperta, migliorando la ricetta e scegliendo la cottura in forno e (aggiungono alcuni racconti) per prendere in giro gli sconfitti chiamano questa particolare schiacciata “oro di Pisa”.
Insomma, a dar retta alla storia popolare, la farinata di ceci sarebbe stata codificata dai genovesi per merito dei pisani che l’avrebbero scoperta in acque livornesi.


Farinata di ceci, lo street food che unisce i popoli di mare
La Socca di Nizza, dove si gusta con il vino rosè e abbondante pepe servito  parte
Leggende a parte, di certo c’è che fin dal medioevo una preparazione a base di farina di ceci, acqua, sale e olio era molto diffusa in tutte le città costiere e che a Livorno è diventata un vero e proprio mito, cibo semplice ma gustoso, sfizio da passeggio e merenda quotidiana per tutti, a tutte le età e accessibile per tutte le tasche. Così familiare che la parola torta sottintende la specificazione (di ceci) e che a differenza che in altre città, l’artigiano che la produce non è il fornaio o il pizzaiolo, ma il tortaio, proprio a sottolinearne la specializzazione.
I tortai livornesi iniziarono a usarla come companatico, infilandola appunto nel pane. Per la precisione nel “pan francese” o francesino, che ha la giusta morbidezza per accoglierla ed è tanto delicato da non coprirne l’aroma.Qui il pane con la torta di ceci si chiama “5 e 5” perché fin dall’inizio del XX secolo si era diffusa l’abitudine di comprarla indicando quanto si voleva spendere: la dose giusta per una bella merenda era 5 lire di pane farcito con 5 lire di farinata.


Farinata di ceci, lo street food che unisce i popoli di mare
La "calentita" è la farinata a Gibilterra (foto dal Festival della Calentita)
“Per partecipare al matrimonio più perfetto che ci sia, gustatela sorseggiando un bicchiere di spuma, rigorosamente “bionda”, bevanda della tradizione livornese” consiglia in uno dei suoi libri il giornalista gastronomo Aldo Santini. E, nella città di Mascagni, è tutt’oggi un vero e proprio rito: deve essere croccantina fuori ma morbida dentro, né troppo bassa né alta, appena salata, cosparsa con una generosa pioggia di pepe nero e soprattutto consumata “a bollore”: appena uscita dal forno (preferibilmente a legna). Questa della temperatura non è una fissazione ma la condizione necessaria affinché la torta sia davvero buona, visto che ad alte temperature sprigiona tutto il suo aroma. Tanto è vero che a Massa, altra città toscana amante del prodotto, dove spesso si gusta nella focaccia, si chiama "calda calda".
E allo stesso modo in Piemonte, dall’alessandrino all’astigiano fino al torinese – dove è stata introdotta dai commerci tra Genova e la pianura Padana – viene chiamata "belecauda", cioè bella calda. E che dire della "calentita" (dallo spagnolo caliente = caldo)? È la versione di Gibilterra della farinata di ceci che fu introdotta lì dalla numerosa colonia genovese che vi si insediò nel 1700. Tuttora diffusissima, la calentita è considerata un piatto tipico della località e le si dedica un festival in giugno. Ma i nomi e i territori della farinata di ceci non finiscono qui. Essendo diffusa lungo tutte le coste del Mediterraneo, dalla Maremma alla Costa Azzurra, è normale che in ogni area acquisti denominazioni diverse. Ecco allora che a Genova si chiama fainâ de çeixai ed era un tempo venduta in locali tipici, le vecchie Sciamadde amate da Fabrizio De André, dove si poteva consumare direttamente con un bicchiere di vino.
Restando in Liguria, nel savonese è chiamata turtellassu, ma spingendosi fino a Nizza diventa la Socca (si legge con l’accento sulla a, ma è una a quasi “mangiata”).


Farinata di ceci, lo street food che unisce i popoli di mare
Pane e panelle, street food tipico palermitano
In Toscana, a parte Livorno di cui abbiamo già detto, troviamo la cecìna in Versilia e nel pisano, mentre in Lunigiana e Garfagnana viene denominata farinata come in Liguria. La cosa che può sorprendere è che anche in Corsica e in Sardegna, dove fu portata dai genovesi, è molto apprezzata. I sardi la chiamano fainè ed è diffusa nella provincia di Sassari. Col nome di fainò è nota a Carloforte, colonia tabarchina dell'isola di San Pietro dove si vende nei numerosi tascélli. E poi ci sono le parenti strette delle farinate: le panelle siciliane, preparate con gli stessi ingredienti della farinata, ma fritte anziché infornate. E la caliente marocchina, ai cui elementi di base si aggiungono le uova.
Ma i confini della farinata superano il Mediterraneo per arrivare in Argentina ed Uruguay dove la fainà si mangia sopra la pizza

Cavolo, la cottura perfetta? Cinque minuti. E per annullare la puzza...

Forse per il suo nome, che non omaggia le sue qualità, o forse per il cattivo odore che emana quando viene cucinato, il cavolo può considerarsi una della verdure più bistrattate di sempre. Eppure - forse non lo sapevate - è uno degli ortaggi che gli italiani più consumano, soprattutto durante l'inverno. E non solo per via del suo sapore: il cavolo è infatti un naturale antinfiammatorio, contiene più ferro della carne ed è altamente digeribile.
Ma per godere a pieno tutti i suoi benefici, riporta il Tempo, il metodo migliore è cucinarlo a vapore. Così facendo si mantengono le sostanze nutritive e si abbassa il colesterolo, ma solo se il tempo di cottura non supera i 5 minuti. Meglio ancora se mangiato crudo, con un insalata. Ultimamente va molto di moda come zuppa, per esempio a base di broccoli e spinaci, oppure nella pasta, come il celebre piatto pugliese con le cime di rapa. In padella è un altro classico, con olio e peperoncino, magari inserito poi in una "frittatona". Ma non finisce qui, il cavolo si può gratinare, friggere, addirittura frullare, per farlo diventare la perfetta guarnizione per, ad esempio, un piatto di pesce.
Ma oltre i molteplici modi in cui si può cucinare, come evitare lo spiacevole olezzo durante la cottura? Il trucco: aggiungere durante la cottura un pezzo di pane raffermo bagnato con un cucchiaio di acet