domenica 19 dicembre 2010

CENA NATALIZIA DELL'AVIS DI MASSA

Lettera aperta all'amico Giovanni, assente...suo malgrado.

Carissimo Giovanni,
voglio raccontarti la cena di ieri sera offerta dall'AVIS di Massa, alla quale purtroppo tu non hai potuto partecipare, perché mi sembra un modo simpatico per ringraziare chi ha promosso la piacevolissima iniziativa: il Presidente Carlo Bellanti al cui tavolo ho avuto l'onore di accomodarmi.
Poiché sono un epicureo convinto, come ben sai, ho accolto l'invito con estremo piacere attendendo con molta calma che iniziassero a servire le abbondanti libagioni, molto dopo le previste 20:30.
I circa 620 commensali hanno iniziato a gustare i deliziosi antipasti alle 21:30; ovviamente per non smentirmi ho fatto il bis degli ottimi salumi: mondiola con pistacchio, (mortadella di bologna per i non massesi), soppressata, salame e coppa.
Al nostro tavolo abbiamo notato tutti con un pizzico di dispiacere la mancanza del re, a mio parere, dei salumi massesi: sua maestà il Biroldo; ma nonostante tale assenza e in presenza dei classici Crostini l'inizio non poteva essere migliore.
Anche il vino rosso, un IGT di cui non ricordo il nome, era molto buono e un po' alla volta ne ho bevuto un buon bicchiere e mezzo.
Il primo piatto di pasta non poteva che essere di Tordelli Massesi e se li definisco squisiti dico poco perché ne ho gustato due piatti, sì lo so che tu diresti, da pantagruelico qual sei: solo due!, ma devi considerare che non ho più l'età delle abbuffate.
Con grande sorpresa sono arrivati altri due vassoi di pasta asciutta: Casarecci con funghi e ragù di carne macinata. Che ti devo dire, erano semplicemente irresistibili e quindi ne ho mangiato tre piatti; sì è vero che non erano piatti fondi, ma erano pur sempre tre!
Ad un certo punto è arrivato il primo contorno: Piselli saltati in padella. Figurati che un commensale ha sottolineato l'assenza di pancetta nei piselli, ma evidentemente la ricetta non lo prevedeva; non meravigliarti, ma è così che al ristorante funziona: prima viene servito il contorno e poi il secondo.
E il secondo dopo un po' è arrivato: fettine di pregevolissimo Arrosto magrissimo.
Come ben sai sono epicureo, ma ogni tanto anch'io come te mi sento pantagruelico, per cui apprezzo più le carni grasse di quelle magre e quindi mi sono limitato a gustarmi solo due terzi di una fettina, certamente deliziosa, ma per me troppo magra!
A questo punto saliva tra i commensali l'aspettativa per il previsto dolce finale, ma inaspettatamente una efficiente cameriera ci porta due vassoi di Patate arrosto che evidentemente precedevano un altro “secondo” che dopo un po' fece la sua comparsa: Stinco di maiale al forno. Non abbiamo applaudito solo per pudore, credo.
Non invidiarmi, ma devo dirtelo, piano piano mi sono gustato l'ottimo stinco ringraziando tra me e me il bravo cuoco che ha avuto l'incombenza di prepararlo.
Giovanni carissimo, non pensare che sia finita perché a questo punto ci hanno servito un delizioso Sorbetto alla mela verde che ha preceduto dei deliziosissimi Fichi secchi e dolcissimi Datteri, evidentemente non massesi, perché, come ben sai, le palme che adornano i nostri viali a mare sono solo ornamentali.
Anche se non sono goloso di dolci non ho potuto esimermi dal gustare qualche fico secco e qualche dattero, non dico esattamente quanti perché altrimenti ti scoppia il fegato.
A questo punto mancava solo il dolce e devo dire che l'attesa è stata un tantino lunga, ma devi capire che tagliare e distribuire seicentoventi fette di torta non è uno scherzo. Comunque l'attesa meritava e chi non ha saputo resistere agli attacchi di sonno ha perso l'occasione di gustarsi una deliziosissima Torta mille foglie preparata da un collega donatore di sangue, pasticciere di professione.



Fidati sulla parola: me la sono gustata tutta, fino all'ultima briciola!

All'una e dieci è finita la.....cena, chiamiamola pure semplicemente così, e siamo tutti corsi a casa dopo aver ritirato il calendario AVIS che ci ricorda quotidianamente, e io lo voglio ricordare anche a te, la necessità di donare il sangue perché donare il sangue fa bene.
Saluti carissimi.

Ennio




mercoledì 15 dicembre 2010

Meno rischi di tumore con i cibi colorati


ANALISI DELL’ISTITUTO MARIO NEGRI

Flavonoidi e proantiocianidine, sostanze cui si deve la pigmentazione di uva, frutti rossi, vino e agrumi, sono associati a minore probabilità di varie forme di cancro

(Fotolia)
MILANO - Mele, soia, uva, frutta secca, tè, agrumi. Sono questi alcuni fra gli alimenti che possono ridurre il rischio di sviluppare un tumore nell’arco della vita. Più in generale, tutti i cibi ricchi di flavonoidi, soprattutto frutta e verdura, insieme a soia e tè, hanno una funzione protettiva verso molte forme di cancro. Lo affermano i ricercatori dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano che, in un articolo sull’ultimo numero della rivistaNutrition and Cancer, tirano le somme di studi condotti su un totale di oltre 26mila persone.
LO STUDIO - I ricercatori hanno raccolto e analizzato i risultati di vari studi multicentrici condotti da esperti del Mario Negri che, negli anni, hanno coinvolto circa 10mila pazienti affetti da tumore e 16mila casi-controllo. Hanno poi confrontato le probabilità di sviluppare un cancro con il consumo di alimenti che contengono flavonoidi e proantocianidine, composti alimentari che si trovano prevalentemente in frutta e verdura, noti da tempo come responsabili della pigmentazione di molti vegetali e da alcuni anni posti sotto la lente d’ingrandimento dei ricercatori per la loro attività protettiva nei confronti di varie patologie.
COSA SONO - «I flavonoidi sono in realtà un insieme di oltre 5mila sostanze che hanno in comune una stessa struttura chimica - spiega Carlo La Vecchia, capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto Mario Negri e professore di Epidemiologia all’Università di Milano -. Sono composti alimentari presenti in micro quantità nei cibi, non hanno funzioni nutritive e una loro carenza, tanto per intenderci, non causa i problemi che causa per esempio una mancanza di vitamine. Però hanno effetti biologici rilevanti e per questo sono studiati con attenzione da alcuni anni, da quando cioè siamo in grado di rilevarne presenza e quantità negli alimenti».
QUALI SONO E DOVE SI TROVANO - I flavonoidi sono rilevabili prevalentemente nei vegetali, in alcuni tipi di frutta, mele, pere, uva, frutta secca, a seconda della sottoclasse (se ne contano sei). Gli agrumi, i piselli, la liquirizia, il cumino sono ricchi di flavanoni. I legumi, come fagioli e piselli, e soprattutto la soia sono fonte preziosa di isolavo, presenti anche nei semi di girasole e in vari tipi di germogli. I flavonoli si trovano perlopiù in verdure come broccoli, cipolle, porri, in vari frutti, specie nella buccia, nel vino rosso e nel tè. I flavoni abbondano nelle erbe, nel sedano, prezzemolo, rosmarino e timo, nei semi dei cereali. Le antocianidine, infine, si trovano nei frutti e nelle verdure di colore rosso, blu e violetto (frutti di bosco, uva, melanzane, ciliegie, prugne, melanzane, rape rosse, ravanelli) e nel vino rosso.
EFFETTO ANTICANCRO - L’analisi dei ricercatori ha tracciato un complessa mappa di correlazioni fra rischio tumorale e consumo di sostanze alimentari. In particolare, flavonoidi totali, flavanoni e flavonoli sono risultati inversamente correlati ai tumori del cavo orale o della laringe, i flavonoli al cancro della laringe, i flavanoni al cancro dell'esofago. Antocianidine, flavonoli, flavoni e isoflavoni sono risultati connessi a un rischio ridotto di tumore colorettale, così come le proantocianidine. Flavoni e flavonoli al cancro della mammella e del rene. Flavonoli e isoflavoni per il tumore delle ovaie. Nessuna associazione è invece emersa sul rischio di tumore prostatico.
PIÙ VEGETALI NELLA DIETA - L’analisi ha comportato un lavoro certosino, spiega Carlo La Vecchia: «Abbiamo esaminato 78 alimenti o gruppi di alimenti. Ciascuno è stato catalogato tramite una banca dati, che contiene correlazioni fra varie sostanze alimentari e nutrienti o micronutrienti. È importante sottolineare che si parla di sostanza assunte in dosi reali e non con forzature da laboratorio: «È la prova che le persone con la loro dieta quotidiana possono contribuire a modificare il rischio di ammalarsi di tumore. Il consiglio pratico? Quello forse più banale, mantenere una dieta ricca di vegetali». E tornare al vecchio adagio «una mela al giorno…».
Donatella Barus
(Fondazione Veronesi)
15 dicembre 2010

venerdì 26 novembre 2010

LETTERA SULLA FELICITA' A MENECEO

Meneceo,
122
Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età  è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro.
Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire.
Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.
123Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.
Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha.
Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.
124Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità.
125Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.
126Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte.
Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mal nato,
ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte.
127Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento.Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.
Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.
128Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia.Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.
129Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore.E' bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo.
Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.
130 Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile.
131I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno.
132Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.
133Chi suscita più ammirazione di colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare ?Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.
134Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità.La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali.
135Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini.
Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.

Vita di Epicuro
scritta da Diogene Laerzio
Epicuro, figlio di Neocle e di Cherestrata ateniese del demo Gargetto, appartenne alla stirpe dei Filaidi, come ci tramanda Metrodoro nella sua opera La nobiltà di nascita. Fra gli altri anche Eraclide nella sua epitome dell'opera di Sozione scrive che egli fu allevato a Samo, dopo la colonizzazione ateniese, e che all'età di diciotto anni andò ad Atene, quando Senocrate teneva scuola nell'Accademia e Aristotele in Calcide. Dopo la morte di Alessandro il Macedone e la cacciata dei colonizzatori ateniesi da Samo ad opera di Perdicca, Epicuro riparò a Colofone presso suo padre, dove visse per qualche tempo e si fece anche dei discepoli. Ma poi ritornò in Atene sotto l'arconte Anassicrate.
Per un certo tempo filosofò insieme con gli altri maestri, poi cominciò a insegnare per suo conto fondando la scuola che da lui prese nome. Egli stesso racconta che si accostò per la prima volta alla filosofia all'età di quattordici anni. Apollodoro l'epicureo, nel primo libro della Vita di Epicuro, afferma che si dedicò alla filosofia deluso dai maestri di scuola che non furono in grado di spiegargli il Caos in Esiodo. Ermippo però afferma che egli stesso fu maestro di scuola e che in seguito alla lettura dell'opera di Democrito s'indirizzò decisamente alla filosofia. Per questo anche Timone così disse di lui:
Il più scarso dei fisici, e il più svergognato, venuto da Samo, maestro di scuola, il più zoticone dei viventi.
Anche i tre fratelli Neocle, Cheredemo, Aristobulo, incoraggiati da Epicuro, si dedicarono con lui alla filosofia, secondo la testimonianza di Filodemo l'epicuree nel decimo libro della Rassegna dei filosofi, così anche il suo schiavo Mys, come sostiene Mironiano nei Capitoli storici simili.
Diotimo stoico gli fu ostile al punto di calunniarlo odiosamente con la pubblicazione di cinquanta lettere vergognose sotto il nome di Epicuro. Identico fine calunnioso ebbe colui che pubblicò col suo nome una raccolta di lettere comunemente attribuite a Crisippo. Ebbe come calunniatori anche lo stoico Posidonio e la sua scuola, Nicolao, Sozione nel dodicesimo libro delle Confutazioni dioclee(in ventiquattro libri) e Dionigi di Alicarnasso.
A sentire tutti questi Epicuro andava in giro con la madre per le case dei poveri a recitare formule espiatorie e insieme al padre faceva il maestro di scuola per pochi soldi. Poi prostituiva un fratello, conviveva con l'etera Leonzio, e spacciava per proprio il pensiero atomistico di Democrito e la teoria del piacere di Aristippo. Non era neppure cittadino legittimo, sostiene Timocrate e anche Erodoto nel libro Sull'efebia di Epicuro; adulò senza vergogna Mitre, ministro delle finanze di Lisimaco, che nelle sue lettere chiamava "salvatore" e "signore", e non risparmiò lodi e adulazioni neppure a Idomeneo, Erodoto e Timocrate, che avevano svelato le sue dottrine più riservate. E nelle lettere a Leonzio scriveva:
Per Apollo salvatore! Quale immensa gioia ho goduto leggendo la tua lettera, cara piccola Leonzio.
E a Temista, la moglie di Leonteo:
Sono capace, se voi non venite da me, a spingermi sulla mia sedia a tre ruote là dove voi e Temista mi dite di venire.
E a Pitocle, che era un bel ragazzo:
Mi accomoderò e aspetterò che tu, desiderato, entri simile a un dio.
Secondo quanto riferisce Teodoro nel quarto libro della sua opera Contro Epicuro, in un'altra lettera a Temista egli si immagina di fare l'amore con lei. I suoi calunniatori aggiungono che fu in corrispondenza con molte altre etere e soprattutto con Leonzio, amata anche da Metrodoro, e sostengono che un passo della sua opera Del fine dica:
Non saprei immaginare il bene senza i piaceri del gusto o le gioie dell'amore o i piaceri che vengono dall'udito o dalla vista.
In un'altra lettera a Pitocle:
Alza le vele, amico, e fuggi ogni genere di cultura.
Epitteto lo accusa di turpiloquio e lo ingiuria molto aspramente. Timocrate, fratello di Metrodoro e discepolo di Epicuro, dopo aver lasciato la scuola, in un'opera dal titolo Cose allegre, scrive che Epicuro era così dedito ai piaceri del cibo che vomitava due volte al giorno e narra che egli stesso riuscì a stento a sfuggire a quella notturna filosofia e a quella setta di iniziati.
Il delirio di questi detrattori è evidente. Epicuro ha sufficienti testimoni della sua immensa bontà verso tutti: la patria che lo onorò con statue di bronzo, tanti amici il cui numero è pari a popolazioni di città intere, tutti coloro che ebbero con lui intima frequentazione, avvinti dall'incanto della sua dottrina, a eccezione di Metrodoro di Stratonicea che passò alla scuola di Carneade forse perché non reggeva l'insuperabile bontà del maestro, la prova della ininterrotta tradizione della sua scuola che, contrariamente a tutte le altre, ancora dura e il vasto numero dei discepoli che si trasmettono lo scolarcato, la gratitudine verso i suoi genitori, la generosità verso i fratelli, la bontà verso i servi, evidente dal suo testamento e dal fatto che essi partecipavano al suo insegnamento filosofico, il più noto dei quali fu Mys, di cui abbiamo accennato, e più in generale la sua benevolenza verso chiunque.
E' difficile rappresentare a parole l'intensità della sua devozione verso gli dei e del suo amor di patria. Addirittura per eccesso di modestia non prese parte alla vita politica. Nonostante i gravi accadimenti politici che allora si abbatterono sulla Grecia, egli non l'abbandonò mai, a parte due o tre viaggi nella Ionia per visitare gli amici. E gli amici accorrevano a lui da ogni parte e convivevano con lui nel Giardino, come riferisce anche Apollodoro (Diocle nel terzo libro del suo Sommariodice che Epicuro aveva comprato il Giardino per ottanta mine), conducendo una vita molto semplice e frugale. Si contentavano - dice - di una tazza di vino da poco, ma di solito non bevevano che acqua. Apollodoro aggiunge che Epicuro rifiutava la comunanza dei beni, quindi anche quanto diceva Pitagora, secondo il quale ogni bene degli amici deve essere in comune. Epicuro sosteneva che ciò comportava sfiducia e senza fiducia non c'è amicizia.
Egli stesso scrive nelle lettere che gli bastava solo un po' d'acqua e un semplice pane, e aggiunge:
Mandami una ciotolina di formaggio conservato in modo che possa scialarmela quando mi viene voglia.
Ecco l'uomo secondo il quale il piacere è il fine della vita! Ateneo lo esalta in un suo epigramma:
Uomini, vi dannate per cose inutili, avidi di guadagno scatenate risse e guerre. Ma la natura non vuole molta ricchezza, mentre voi l'estendete all'infinito. Questo udì dalle Muse il sapiente figlio di Neocle o dai tripodi sacri di Apollo.
Tutto questo poi lo vedremo meglio quando esporremo la sua dottrina e i suoi detti.
Secondo la testimonianza di Diocle, tra i filosofi arcaici preferiva Anassagora, anche se su qualche punto lo confutava, e Archelao, il maestro di Socrate. Diocle ci informa inoltre che esercitava i discepoli a imparare a memoria i suoi scritti. Apollodoro nelle Cronache scrive che Epicuro fu allievo di Nausifane e di Prassifane, però Epicuro lo nega. Nella sua lettera a Euriloco sostiene di essere stato il maestro di se stesso. Epicuro ed Ermarco negano l'esistenza del filosofo Leucippo, mentre l'epicureo Apollodoro e altri affermano che Leucippo fu effettivamente il maestro di Democrito. Secondo Demetrio di Magnesia Epicuro fu discepolo anche di Senocrate.
Nacque, secondo le Cronache di Apollodoro, nel terzo anno della CIX Olimpiade, arconte Sosigene, il giorno settimo del mese di Gamelione, sette anni dopo la morte di Platone. A trentadue anni fondò la sua scuola prima a Mitilene e a Lampsaco, che durò cinque anni e poi la spostò ad Atene dove Epicuro morì nel secondo anno della CXXVII Olimpiade, sotto l'arcontato di Pitarato, all'età di settantadue anni. Gli successe nello scolarcato Ermarco figlio di Agemorto, di Mitilene. Morì di calcoli renali dopo quattordici giorni di malattia, come scrive Ermarco nelle lettere. Ermippo riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d'un fiato. Dopo aver raccomandato agli amici di non dimenticare il suo pensiero, spirò. Noi abbiamo scritto per lui questo epigramma:
"Salve e siate felici e memori del mio pensiero," furono le ultime parole di Epicuro agli amici. Entrato nel calore della tinozza, con uno stesso sorso bevve vino puro e il freddo della morte.
Tale fu la sua vita e tale la sua fine. Ecco il suo testamento:
Lascio tutti i miei beni ad Aminomaco, figlio di Filocrate del demo Bate e a Timocrate, figlio di Demetrio, del demo Potamo, secondo la donazione fatta a ciascuno di loro e trascritta nel Metroo, a condizione che il Giardino e le sue dipendenze vengano assegnati a Ermarco figlio di Agemorto, mitilenese, per lo studio della filosofia e ai suoi compagni, e a coloro che Ermarco lascerà successori nello scolarcato, in modo che possano conservarlo nel miglior modo possibile insieme ad Aminomaco e Timocrate. E via via a tutti i membri della mia scuola affido fiducioso la continuità dell'insegnamento nel Giardino e agli eredi dei suddetti affinché anch'essi mantengano il Giardino nel modo più sicuro e integro possibile, come anche coloro ai quali l'affideranno i miei discepoli. La casa di Melite sia data da Aminomaco e Timocrate a Ermarco e ai compagni che con lui filosoferanno perché la abitino finché Ermarco vivrà.
I proventi ricavati dai beni lasciati da me ad Aminomaco e Timocrate siano, per quanto è possibile, suddivisi d'accordo con Ermarco per i sacrifici funebri in onore di mio padre, mia madre e i miei fratelli, per la consueta celebrazione del mio compleanno nel decimo giorno di Gamelione, e per la riunione di tutti i nostri compagni in filosofia il venti di ogni mese, dedicata alla memoria mia e di Metrodoro. Celebrino inoltre il giorno consacrato ai miei fratelli nel mese di Posidone e quello a Polieno nel mese di Metagitnione, come io solevo fare. Aminomaco e Timocrate si prendano cura di Epicuro figlio di Metrodoro e del figlio di Polieno, perché vivano e coltivino la filosofia insieme con Ermarco. Abbiano cura anche della figlia di Metrodoro, e all'età giusta la diano in matrimonio a colui che Ermarco sceglierà fra i suoi compagni di filosofia, perché è brava e ubbidisce molto a Ermarco. Per il loro mantenimento Aminomaco e Timocrate prendano quanto a loro sembrerà giusto dalle mie rendite, anno per anno, sempre sentito il parere di Ermarco.
Diano anche a Ermarco la piena disponibilità di disporre dei miei redditi, affinché ogni decisione sia presa con la piena partecipazione di colui che invecchiò con me negli studi filosofici, e che ho lasciato a capo della mia scuoia. Aminomaco e Timocrate costituiscano la dote opportuna per la fanciulla, quando sarà in età da marito, ricavando dal patrimonio col consiglio di Ermarco. Seguendo quanto io feci quando ero in vita, si prendano cura anche di Nicanore, perché desidero che tutti i nostri compagni in filosofia che mi sono venuti incontro coi loro mezzi e con ogni prova d'affetto scelsero di invecchiare con me nella filosofia, nulla abbiano a patire di ciò che è necessario per vivere.
A Ermarco vada tutta la mia biblioteca. Se prima che i figli di Metrodoro raggiungano la maggior età accadrà a Ermarco qualche umana sciagura, Aminomaco e Timoaate diano loro quanto occorre per farli crescere, attingendo per quanto è possibile alle mie rendite, sempre che si comportino bene. Per tutto il resto si prendano ogni cura secondo le mie disposizioni. Degli schiavi lascio liberi Mys, Nicea e Licone, lascio libera anche Fedrio.
Ecco la lettera che scrisse a Idomeneo in punto di morte:
In questo bellissimo giorno, che è anche l'ultimo della mia vita, ti scrivo questa lettera. I dolori della vescica e dell'intestino non possono essere più lancinanti, eppure la gioia del mio animo riesce ad opporsi a loro per il dolce ricordo del nostro filosofare insieme. Abbi cura dei figli di Metrodoro, come è degno della buona disposizione che fin da giovane avesti verso me e la filosofia.
Tali furono le sue ultime volontà.
Epicuro scrisse moltissimo e in quanto a numero di libri superò tutti. Si tratta infatti di circa trecento volumi. Non vi si trovano mai citazioni di altri, tutto è stato scritto proprio da Epicuro.

sabato 11 settembre 2010

BACCALA' ALLA UALANEGNA

Questo è un piatto tradizionale del paese dove sono nato, Aquilonia ed è anche uno dei miei preferiti.
E' un piatto semplicissimo e tipico della cosiddetta cucina povera anche se oggi il baccalà non costa poco.
Ingredienti: Baccalà, aglio, olio e.v.o., peperoncino piccante e se volete prezzemolo fresco.

PREPARAZIONE 

  1. mettete il baccalà, meglio se filetto, a mollo per 24 ore cambiando spesso l'acqua
  2. fate bollire il baccalà in acqua salata per circa 10 m.
  3. nel frattempo fate soffriggere l'aglio tagliato molto sottilmente o tritato finemente con il peperoncino piccante, in polvere o tritato grossolanamente, e spegnete il fuoco quando l'aglio assume la colorazione dorata
  4. scolate il baccalà e mettetelo in un vassoio tagliato a pezzetti
  5. versate l'intingolo sul baccalà aggiungendo, se volete, del prezzemolo fresco tritato finemente
Non mi resta che augurarvi buon appetito!

venerdì 10 settembre 2010

LA CENA DELLO STRAPPO


E' mezzanotte di un venerdì uggioso, in testa frullano ancora le ultime notizie del telegiornale e io decido che è l'ora di andare a dormire.
Mi siedo sul letto e cerco invano di slacciarmi le scarpe; ansimando, non poco, mi chino di più e riesco nell'impresa, ma in quel momento prendo la storica decisione di dimagrire.
......obesità e ipertensione: è troppo. Rischio l'infarto e quindi devo rimediare, immediatamente.
Due giorni dopo sono seduto alla scrivania di fronte al medico dietologo che esibisce un fisico mingherlino da far paura.
Ennio, mi dice il medico con voce imperiosa: deve dimagrire! Deve dimagrire di 19 Kg.; sono troppi ottantanove chili per un uomo alto 1,68. Deve arrivare a pesare 70 Kg!
A quel punto credo di essere sbiancato, ma prendo il coraggio a due mani e uso tutta la mia dialettica e la mia capacità contrattuale di vecchio sindacalista convincendo il medico ad accettare un accordo per permettermi di arrivare a 75 Kg.
Ora però sono fregato, non posso bluffare e devo rispettare l'accordo!
Onestamente devo ammettere che dopo il primo mese, nel quale ho perso ben 6 Kg., faccio molta fatica a dimagrire. “Certo, non fai movimento, passi dalla scrivania al divano; lo sai che dovresti camminare almeno per 40 minuti al giorno.”
I soliti rimbrotti della moglie.
Ad un certo punto decido e compro una bicicletta approfittando di un'offerta speciale; ma non è che la usi molto, in compenso però capisco la paura dei ciclisti e la necessità delle piste ciclabili!
Una sera che la moglie va a mangiare la pizza con le amiche decido di fare uno strappo alla dieta e invito un amico a condividere con me questa trasgressione.
Chiamo Guglielmo, la persona ideale perché, oltre ad essere un amico di vecchia data è quello più idoneo a condividere la cena che ho in mente.
Sì, perché non voglio fare una cena pantagruelica, voglio solo gustare un piatto tipico massese che mi è stato proibito, L'Uovo ubriaco, voglio fare solo uno strappo alla dieta e poi riprendere il percorso che mi avrebbe riportato ad un peso accettabile.
A questo punto mi accorgo che posso, con una semplice cena, rendere omaggio alla cucina italiana.
E allora decido di cimentarmi anche in un primo piatto, Spaghetti alla Carrettiera: aglio, olio e peperoncino con l'aggiunta di pane grattugiato tostato.

Rientrano nella dieta, segnano il trionfo della Cucina povera e mi riportano alle lontane origini irpine.
Mentre una telegiornalista sta recitando “l'omelia” delle 20 su Canale 5, suonano alla porta: è Guglielmo con una bottiglia di Prosecco di Valdobbiadene, una bandiera del Nord-Est.
Guglielmo stappa con la solita maestria il biondo nettare spumeggiante e lo versa nei capienti flut.
Dobbiamo fare onore agli spaghetti alla carrettiera e quindi beviamo con generosità.
E veniamo all'Uovo ubriaco: la variante rispetto al classico uovo all'occhio di bue non sta nell'uso dell'olio, ma nell'aggiunta, a metà cottura, di una fetta di salame sopra ogni uovo e nella grappa da fiammeggiare per dare il tocco finale.
Attenzione alla provenienza degli ingredienti: gli spaghetti da Fara San Martino, l'olio, un dorato extravergine, dalle colline di Ostuni e il peperoncino, un diavolicchio, dalla Calabria; le uova e il salame da Massa, il vino, un generoso ROSSO FOSCO DOC, e la grappa da Formigine.
Abbiamo dato un contributo all'unità dello stivale senza perderci in un bieco campanilismo.
Altro che strappo alla dieta! Grazie al Prosecco e al Rosso Fosco abbiamo unificato l'Italia cantando a squarciagola l'inno di Mameli.
Volevamo dare il nostro contributo alla valorizzazione delle tradizioni enogastronomiche del nostro Paese senza far torto ad alcuno e senza forzature localistiche e quindi ci siamo gustati dei deliziosi gianduiotti torinesi e alcuni perugina al brandy.


W l'Italia...a tavola, fu il nostro ultimo brindisi!



L'Autore

Ennio Di Benedetto


N.B.

Racconto inviato al Concorso Letterario del 2007 promosso dalla Casa Vitivinicola Santa Margherita S.P.A. In collaborazione con la Casa Editrice “la FELTRINELLI”