giovedì 24 agosto 2017

Il ritorno della pajata. Quella vera

11/04/2016  Massimo Lanari SHARE

Dopo la liberalizzazione dello scorso anno, varate le nuove disposizioni per il consumo dell’intestino del vitello come prescrive la tradizione. Tra il Testaccio e Alberto Sordi, la storia di uno dei piatti simbolo della cucina romana
pajata
Dopo la liberalizzazione avvenuta lo scorso agosto, mancava ancora un tassello per farla tornare sulle tavole degli Italiani. A Roma, in particolare. Stiamo parlando della vera e autentica pajata. Come precisa Coldiretti, infatti, se il nuovo Regolamentto Ue 2015/1162 segnava già la definitiva fuoriuscita del famoso piatto a base di interiora dalle “catacombe enogastronomiche”(si poteva ritornare a commerciare l’intestino di vitello a patto che fosse pulito, svuotato e sbiancato), adesso, a seguito delle nuove disposizioni, l’intestino medio dei vitelli può anche essere utilizzato con il contenuto di chimo (latte), consentendo quindi il ritorno della ‘vera’ pajata”. Il divieto era entrato in vigore ai tempi della crisi di mucca pazza, ed è caduto dopo 15 anni. Da quando, cioè, l’Italia è stata dichiarata “a rischio trascurabile” per questa malattia: “’Italia con Giappone, Israele, Olanda, Slovenia e Usa, fa parte della ristretta cerchia di 19 Paesi, sui 178 aderenti all’Oie (l’Organizzazione mondiale della salute degli animali) ad aver raggiunto questo obiettivo.

Tra i divieti per la BSE ancora in vigore rimane, per la gastronomia italiana, solo il cervello di bovino adulto, ingrediente di un piatto della nostra tradizione come il cervello fritto alla fiorentina.

Il marchese e la pajata
Ma che cos’è la pajata, e perché è diventata uno dei simboli della cucina romanesca? Per “pajata” si intende innanzitutto la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte, pulito ed eviscerato ma non privato del latte (chimo), bevuto dal piccolo bovino, ora finalmente riabilitato. Inconfondibile, grazie al suo gusto forte, antico, popolare. È l’ingrediente di uno dei piatti più famosi della cucina romana: quei rigatoni con la pajata che Alberto Sordi, nella famosa scena dell’osteria nel Marchese del Grillo, definirà così all’affascinante ospite francese di inizio ‘800: “Questa è merda! È proprio merda. Merda de vitella: so’ budella”. Ma la raffinata ospite, prima di saperlo, li stava mangiando con gusto…

I rigatoni
Dunque, ecco la ricetta dei rigatoni con la pajata: si taglia l’intestino a pezzi formando ciambelle o piccole salsicce e si fanno cuocere in padella in olio extravergine d’oliva, sale, cipolla, carota, sedano, aglio e peperoncino. Il tutto si fa rosolare a fuoco basso per circa 10 minuti, sfumando con del vino bianco. Si aggiunge quindi la passata di pomodoro e si lascia cuocere per un paio d’ore, sempre a fuoco lento, mescolando di tanto in tanto e aggiungendo dell’acqua calda se necessario , fino ad ottenere un sugo densissimo. A questo punto si fanno cuocere i rigatoni, che andranno ripassati in padella con l’aggiunta del pecorino romano.

Come secondo
I famosi rigatoni, però, non sono l’unico modo per preparare la pajata: si può preparare in umido, senza l’ausilio dei rigatoni; arrosto, cosparsa di strutto, cotta alla brace e condita con sale e pepe (modalità tradizionalmente molto diffusa fuori città); e al forno, con patate aromatizzate al rosmarino.

Il quinto quarto
La storia della pajata è legata a doppio filo con quella del “quinto quarto”, ossia i tagli meno pregiati e le interiora del bovino, più a buon mercato per le povere tasche dei popolani della capitale, in una città come la Roma papalina in cui, tradizionalmente, il consumo di carne fino al Settecento era comunque molto più alto rispetto alle altre città d’Italia e ad alcune capitali europee. Allora, secondo una testimonianza riportata dalla storica Marina Formica, a Roma si mangiava “il doppio più carne e vino che consuma Napoli benché quella città sia il doppio più grande”. La propensione della cucina romana al “quinto quarto” si deve, secondo alcuni storici, all’influenza della cucina ebraico-romana. Le fortune delle interiora iniziarono però a declinare proprio alla fine del ‘700, quando cominciarono ad essere usate solo dalle classi più povere che vivevano vicino ai mattatoi, che nel frattempo le autorità tendevano ad allontanare dal centro per motivi igienici. Per questo la tradizione della pajata, nell’Ottocento, si concentrerà prevalentemente al Testaccio. L’edificio che oggi si può ammirare risale al 1888, ma già negli anni precedenti lì si erano concentrati “vaccinari” o “scortichini”, ossia coloro che avevano il compito di scuoiare i bovini. Questi operai venivano pagati in natura e non in moneta. E proprio col “quinto quarto”, magro compenso per il loro duro lavoro. Il consumo di piatti della cucina di recupero andrà però via via diminuendo, fino ai pochi “templi” vivi ancora oggi, che però hanno la loro legione agguerritissima di adepti. Dopo lo shock della messa fuori legge all’inizio degli anni 2000, la tradizionale pajata è stata a lungo sostituita da quella preparata con interiora d’agnello. Oggi, attende solo di essere riscoperta per riavere, anche lei, la gloria che merita.

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